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Morire di polizia, un delitto senza reato

Quindici giorni fa è andato in libreria, e ne abbiamo parlato, il libro di Alessia Lai e Tommaso della Longa sui morti di violenza poliziesca, “Quando lo Stato uccide” (Castelvecchi Editore, pagg. 246, euro 16). Tema di strettissima attualità: in queste settimane, infatti, la corte di Strasburgo ha prosciolto l'Italia dagli addebiti per la morte di Carlo Giuliani, mentre è cominciato il processo per l'omicidio Cucchi. Ecco la recensione del libro pubblicata dal quotidiano per cui scrive Alessia, Rinascita.

Quando lo Stato uccide: quei poliziotti “violenti per tendenza” di Matteo Mascia

Le statistiche sul numero di vittime di omicidi nel nostro Paese vengono continuamente aggiornate.
Nella lunga lista ci sono dei nomi che passano troppo spesso inosservati, sono quelli relativi ai cittadini morti a causa della violenza delle cosiddette Forze dell’ordine. Persone che dovrebbero curarsi di mantenere la sicurezza e che qualche volta finiscono per interpretare il ruolo di carnefici. Basta parlare di “colpo accidentale” o di “misure di contenimento del fermato” per ammantare di normalità queste morti e farle passare per incidenti. Effetti collaterali che finiscono per essere tollerati acriticamente sia dai tribunali che dai media.
Alessia Lai e Tommaso della Longa nel loro “Quando lo Stato uccide” (Castelvecchi Editore, pagg. 246, euro 16) hanno cercato di rompere questo velo di ipocrisia per ricostruire le storie di queste “fatalità”. Per farlo hanno ricostruito il quadro giuridico nel quale operano le Forze di polizia. Una normativa a maglie larghe che permette agli operatori di Ps di usare le armi e la forza fisica senza prestare troppa attenzione alle possibili conseguenze civili o penali. Leggi che una volta trovavano la loro ragione giustificatrice nella lotta al terrorismo di matrice politica e che, in un modo o nell’altro, sono arrivate quasi intatte sino agli anni Duemila. Articolati che potrebbero essere definiti “leggi speciali” senza temere di essere contraddetti. Se il legislatore ha dimostrato una cura certosina nell’evitare di mettere troppi paletti agli uomini in divisa non ha fatto altrettanto per delineare una fattispecie che punisse con efficacia i tutori dell’ordine “violenti per tendenza”. Da anni infatti numerose organizzazioni non governative lamentano la mancanza nel codice penale italiano del reato di tortura. Una norma che consentirebbe di rendere giustizia ai fermati, ai detenuti o ai semplici cittadini di ottenere giustizia qualora riescano a poter raccontare la propria esperienza.
La mancanza di un reato specifico costringe infatti le Procure a perseguire gli indagati tramite altre figure meno specifiche. Reati che, a causa delle pene edittali previste, prevedono tempi di prescrizione molto brevi. È sufficiente andare in dibattimento, con l’intenzione di voler affrontare tutti e tre i gradi di giudizio, per essere quasi sicuri di evitare conseguenze. È stato però proprio un processo relativo a violenze a far aprire gli occhi all’opinione pubblica. Parliamo dei procedimenti relativi ai disordini durante il G8 di Genova, alla “macelleria messicana” della scuola Diaz ed ai maltrattamenti all’interno della caserma di Bolzaneto. Fatti che hanno spinto anche il Dipartimento di Pubblica sicurezza del Viminale a cambiare il proprio modus operandi, puntando su un maggiore addestramento degli uomini impiegati nelle manifestazioni di piazza o all’interno degli stadi. I fatti dell’estate del 2001 hanno infatti reso palese quanto sia precaria la preparazione di poliziotti e carabinieri. Una situazione lamentata dagli stessi esponenti dei sindacati di polizia. Gli Autori hanno infatti intervistato i segretari delle sigle più rappresentative per chiedere loro un parere sulla gestione dell’ordine pubblico in Italia. Parole crude che tratteggiano uno scenario in cui molte cose sono lasciate all’improvvisazione degli operatori o all’iniziativa del singolo. Particolarmente severo è stato Antonio Savino, leader dell’Unione nazionale Arma dei Carabinieri e direttore de “La rivista dell’Arma”, che ha evidenziato come fra i Generali manchi totalmente la “cultura della preparazione professionale” e ci sia la malcelata tendenza a mantenere privilegi di stampo corporativo a scapito della sicurezza dei cittadini e dei militari che occupano i gradini più bassi della scala gerarchica. Un macabro risiko che il Parlamento potrebbe anche prendersi la briga di interrompere. In attesa che la politica esca dal torpore i casi di Stefano Cucchi, Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi hanno aperto spiragli di giustizia. Un cambio di passo che si spera limiti la presenza nelle sentenze di una formula che spesso nasconde la violenza: “eccesso colposo di legittima difesa”.



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