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Acca Larentia, la memoria e quel dito accusatore

In questi ultimi due giorni ho un po' trascurato il blog e i programmi di scrittura: dapprima per l'incalzare dell'attualità poi per impegni di lavoro (succede, succede) e così ho "perso" qualche appuntamento (5 marzo: il ferimento e la cattura di Francesca Mambro, 6 marzo: la morte di Franco Anselmi) ma li recupererò. Anche perché rappresentano la conclusione di due cicli di ragionamento lasciati aperti: la natura plurale e carismatica della leadership dei Nar, la catena di sangue che si snoda da Primavalle. Intanto vi ripropongo il pezzo di Bianconi (trovato nel blog di Sergio Segio, intitolato alla sua autobiografia "Miccia corta") dedicato a tre libri sui morti degli anni di piombo. Quello di Cutonilli e Valentinotti su Acca Larentia,di cui tanto abbiamo parlato e di cui ancora toccherà parlare, e i due volumi di fresca stampa sull'omicidio Verbano. C'è qualcosa in più nel libro sulla strage che Bianconi non ha evidenziato: una pista investigativa vera e propria con tanto di individuazione delle strutture operative coinvolte (il nucleo autonomo dell'Alberone, i compagni dei Castelli romani che poi confluiranno in Prima Linea) e del leader a cui facevano riferimento. Un nome pesante, quello di Luigi Rosati, uno dei dirigenti di Potop romano e poi della filiera intricata dei Comitati comunisti. Ho già avuto modo di sottolineare le mie perplessità ma essendo questo l'esito dell'inchiesta non ci si può  accontentare di pensare che Cutonilli e Valentinotti intendessero costruire un monumento alla memoria. No, hanno inteso indicare con precisione quelli che ritengono i colpevoli. E con questa loro determinazione tocca fare i conti.

Terrorismo: i delitti dimenticati


Quelle verità negate di una stagione «rovente e inquinata»

Francesco Ciavatta aveva 18 anni e frequentava il liceo, Franco Bigonzetti 19 ed era iscritto al primo anno di Medicina. Furono falciati dai colpi di una mitraglietta Skorpion, davanti alla sezione missina del quartiere Tuscolano a Roma, il 7 gennaio 1978. Un paio d’ore più tardi cadde Stefano Recchioni, vent’anni meno venti giorni, in partenza per il servizio militare, ucciso dalla pallottola sparata da un carabiniere nei disordini seguiti al duplice omicidio. Sono i morti. della strage di via Acca Larentia, due mesi prima della strage di via Fani in cui le Br sequestrarono Aldo Moro e annientarono i cinque uomini della scorta. Due anni dopo, 22 febbraio 1980, stessa città, quartiere Monte Sacro. Valerio Verbano, studente aderente ai collettivi comunisti autonomi, tornava a casa all’ora di pranzo. Ad attenderlo c’erano tre neofascisti che lo ammazzarono con una calibro 38 dopo una colluttazione. Ancora tre giorni e avrebbe compiuto 19 anni; i genitori, legati e imbavagliati dai killer, sentirono tutto dall’altra stanza. Sono passati più di trent’anni, ed è come se quei morti — dimenticati o rimasti in secondo piano, insieme a tanti altri, nella storiografia sugli anni di piombo — reclamassero oggi la loro dignità di vittime. E un po’ di verità finora negata, come la giustizia che non è stata fatta. Sono nomi poco famosi rispetto a quelli più o meno illustri assassinati dalle Brigate rosse, da Prima linea o dai Nuclei armati rivoluzionari, le bande che a sinistra e a destra hanno egemonizzato la lotta armata in Italia. Dopo vengono loro, caduti nella guerra fra «rossi» e «neri» combattuta parallelamente all’attacco terroristico al «cuore dello Stato» . Gioventù bruciata dalla violenza politica cominciata con botte e sprangate e finita a colpi di pistola e mitraglietta. Nomi per lo più dimenticati, che adesso qualcuno cerca di riportare alla ribalta. Un tentativo l’hanno fatto Valerio Cutonilli e Luca Valentinotti, autori di Acca Larentia, quello che non è mai stato detto (edizioni Trecento), in cui raccontano la morte di Ciavatta, Bigonzetti e Recchioni, che si sovrappone a quella di tanti altri ragazzi di destra ed estrema destra uccisi a Roma in quella troppo lunga stagione di sangue. Perché c’è un filo che li tiene insieme, giacché ogni delitto arrivava mentre si celebrava la ricorrenza di un altro, o durante gli scontri seguiti all’agguato precedente. Una catena che parte dal rogo di Primavalle (16 aprile 1973, la fine orribile dei fratelli Virgilio e Stefano Mattei, figli del segretario della sezione missina) e prosegue ben dopo Acca Larentia. E la stessa mitraglietta che falciò Ciavatta e Bigonzetti sparerà ancora: non più sui «topi neri» , come furono sprezzantemente chiamati dalla rivendicazione dei Nuclei armati per il contropotere territoriale, ma contro gli ultimi obiettivi delle Brigate rosse: Ezio Tarantelli, Lando Conti, Roberto Ruffilli. C'è molta passione e anche un po’ di retorica, nella rievocazione di Cutonilli e Valentinotti, ma ben si comprende il senso di voler onorare i morti. Che rivendicavano allora il diritto di essere di destra, e persino fascisti al tempo dell'antifascismo militante, così come oggi gli autori del libro rivendicano il diritto di quelle vittime ad avere giustizia. Invece non è accaduto, nonostante una «pentita» abbia dato indicazione e una persona sia stata arrestata con l’accusa di aver avuto fra le mani la mitraglietta assassina; s’impiccò poco dopo l’arresto, e l’indagine non portò a nulla. È lo stesso destino toccato a tanti altrimorti, di destra, di sinistra e persino di niente, colpiti per errore. Chi ha rivendicato l’omicidio di Valerio Verbano, ad esempio, accusò il giovane autonomo di essere il mandante dell’uccisione di Stefano Cecchetti, ammazzato davanti a un bar frequentato da «neri» al quartiere Talenti, anche se Cecchetti non era affatto «nero» . Verbano non solo non fu il mandante di quel raid, ma l’aveva pubblicamente criticato perché compiuto nella logica dello «sparare nel mucchio» . Eppure i suoi assassini l’avevano bollato con quel marchio. La storia del delitto Verbano è ora raccontata in due libri. Uno più biografico, Valerio Verbano, una ferita ancora aperta (Castelvecchi), di Marco Capoccetti Boccia, e uno più d’inchiesta, Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché (Odradek), di Valerio Lazzaretti. Entrambi gli autori narrano fatti e intrecci con una freddezza che ben restituisce il clima rovente e inquinato di quella stagione, e hanno l’obiettivo ambizioso di far riaprire le indagini su quest’altro assassinio senza colpevoli; l’inchiesta è effettivamente ricominciata, ma prima dei due volumi. Entrambi sono più giovani della vittima a cui si sono dedicati, come pure gli autori di Acca Larentia. Uomini che hanno attraversato da bambini o al massimo da adolescenti gli anni di piombo, e hanno deciso di ripercorrerli da grandi partendo da storie poco rievocate, ma ugualmente crudeli e significative di un periodo che ha segnato in maniera indelebile la storia d’Italia. E soprattutto rimaste senza verità e giustizia. Se i processi non sono arrivati a ricostruire tutto, almeno ci sono i libri a tentare di raccontare ciò che non va dimenticato.
Fonte : Giovanni Bianconi - Corriere della Sera | 07 Marzo 2011 

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