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Mancinelli: crisi della destra radicale e deriva neoconservatrice 2a edizione

L'intervento di Laganà sulla crisi del centro-destra e sul riposizionamento della fascisteria ha suscitato notevole interesse ed è stato ampiamento "taggato" su facebook. L'unico commento sul blog è di Francesco Mancinelli, la testa fina di "Generazione '78". Un paio di anni fa aveva pubblicato sul sito web di Orion un'interessante analisi sulla crisi della destra radicale e la deriva neoconservatrice i cui temi si incrociano puntualmente col dibattito attuale. Lo ripropongo quindi anche se è non è proprio a misura di post.


La crisi della “destra radicale”: tra estremismo pre-politico, trasformismo neo-conservatore e derive nazional-populiste
Premessa
Per mesi sui forum, ed in attesa che passasse la febbre gialla da delirio elettorale, ci siamo confrontati sui temi che risultano essere essenziali alla comprensione della crisi tutta interna alla cosiddetta “area” della destra radicale: il problema della rifondazione di un nuovo linguaggio condiviso, il problema della scelta di nuovi immaginari di riferimento, il problema di un nuovo posizionamento politico oltre la destra e la sinistra.
L’intersezione di queste tre linee di analisi dovrebbero perlomeno chiarire, se non sciogliere, numerosi nodi sull’attuale stagnazione e riavviare quel salutare processo di crescita verso una cultura organica non-conforme, verso forme di pensiero non-omologate e non-allineate alle tendenze del pensiero unico totalizzante; l’obiettivo dovrebbe essere quello di recuperare un ruolo ed un metodo di avanguardia, un laboratorio emergente che perlomeno sappia anticipare e non subisca gli eventi eterodiretti da terzi.
Il focus di questa analisi è posizionato sui tre macrofenomeni (l’estremismo pre-politico, il trasformismo neo-conservatore e post-ideologico, le derive nazional-populiste) che hanno interagito (dai primi anni Novanta in poi) ed interagiscono tuttora con il perimetro della destra radicale, snaturandola dal suo ruolo guida; la crisi di quest’ultima è direttamente interconnessa al dilatarsi dei tre fenomeni citati.
L’ultimo assalto non-conforme della “destra radicale”
Tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) ed il 1992 (“Mani pulite” e fine della Prima repubblica) una serie di eventi vengono ad accelerare da un verso, e scardinare dall’altro, quella salutare aria di rinnovamento movimentistica-culturale che aveva visto la cosiddetta “destra radicale” all’avanguardia rispetto a tutto e tutti dalla seconda metà degli anni Settanta in poi.
È indubbio che se noi analizziamo attentamente la pubblicistica, le iniziative, il linguaggio, le riviste, i look, gli eventi, le esperienze militanti, la costruzione di strutture (librerie-circoli), le case editrici, l’attenzione ossessiva degli avversari, ci rendiamo perfettamente conto della potenzialità incredibilmente espressa dal mondo giovanile destro-radicale in salutare fibrillazione dal 1976 circa, nonostante lo scontro sul campo con le formazioni dell’antifascismo militante; dopo 40 anni, infatti, si era intercettata la giusta chiave di emancipazione dal neo-fascismo, ovvero da quel fenomeno carsico che dal 1946 (fondazione dell’Msi) era stato volontariamente preso in ostaggio “a destra” per volontà di De Gasperi e Togliatti e sotto la supervisione ed il controllo incrociato dell’alleato atlantico.
La rottura antropologica inequivocabile espressa dalla metà degli anni Settanta, risulta chiara non solo rispetto alle originali espressioni culturali emergenti (tra cui il fenomeno iniziale della Nuova Destra, i Campi Hobbit, la pubblicistica delle nascenti case editrici, la musica, le radio, i fumetti), ma anche dai modelli di organizzazione del movimentismo militante politico, decisamente all’avanguardia nel linguaggio, nella comunicazione e nel posizionamento (oltre e contro la destra e la sinistra). Esiste in effetti una dimensione univoca, una sensibilità comune tra esperienze completamente diverse quali Terza Posizione, Costruiamo l’Azione, Ideogramma, ma anche grosso modo con l’esperienza del Fronte della Gioventù anni Ottanta che ne recupera gran parte delle parole d’ordine; tale sensibilità ed univocità si percepisce peraltro anche all’interno dell’immaginario di riferimento della tragica esperienza legata alla lotta armata, a cavallo tra esistenzialismo ed insurrezione armata, esperienza che nella sua fase iniziale aveva, come tutti sappiamo, solo una finalità di difesa della comunità militante.
Per tutti gli anni Ottanta in poi, e nonostante le campagne repressive di Stato, riviste e laboratori come “Orion”, “Diorama”, “l’Uomo Libero”, “Elementi” avevano rinvigorito, pur nella loro diversità, le parole d’ordine essenziali, individuando i nuovi scenari di scontro che indicavano decisamente nell’Occidente e nelle sue variabili (militari, economiche, politiche e culturali) il nemico principale da combattere. La caduta del muro di Berlino del 1989, la fine delle realtà comuniste dell’Est, l’azzeramento delle classi dirigenti della Prima repubblica, potevano essere l’occasione determinante per una capitalizzazione di queste espressioni antagoniste; congiuntura straordinaria, in cui addirittura sembrava che perfino una certa “destra”, istituzionale e minimalista, vissuta sempre a ridosso del ghetto parlamentare, potesse cavalcare verso il superamento ideologico dell’ambiguo termine di “destra” e puntare decisamente allo sfondamento a sinistra (tutti si ricordano l’illusione della segreteria Rauti nel 1990-1991).
L’avvento dell’estremismo pre-politico: la moda naziskin
La realtà invece stava per presentare il salato conto, con un paradosso che la dice molto lunga su quello che significa “processo di inversione” nelle categorie del linguaggio dell’immaginario e nel posizionamento politico.
Arrivate con puntualità inverosimile sul primo binario, alcune espressioni/mode pre-politiche nate dai sobborghi inglesi, impregnate e condizionate dalle contraddizioni sociali, hanno azzerato e annacquato le tendenze evolute destro-radicali anni 70/80 in Italia (ed in Europa) ed hanno involuto tutto l’ambiente di riferimento. Hanno altresì schiacciato la radicalità feconda emergente verso “un estremismo castrante”, che nell’immaginario collettivo, ha ricollocato pesantemente “a destra“ tutto il tessuto politico umano e culturale; se la battaglia della destra radicale era stata improntata sul superamento delle categorie tradizionali, il fenomeno “neo-nazi” ha completamento azzerato tale risultato. Stiamo parlando di mode, di trend, non ordini politici o culturali, né laboratori partoriti da esoteriche intuizioni, né tanto meno da esperienze politiche di massa, bensì semplici mode minoritarie: generate dal minimalismo della working class metropolitana inglese, stretta tra la fine delle garanzie del welfare socialdemocratico e la proliferazione disordinata delle ondate migratorie.
Tale fenomeno in realtà, già in atto dai primi anni Ottanta in Inghilterra, è esploso in forma pre-politica ed estremista in tutto il resto d’Europa anche grazie alle forme della comunicazione non mediata (soprattutto la musica giovanile Oi, lo Ska, l’Underground ed Internet); con l’effetto di una droga liberatoria tale fenomeno ha spopolato tra le giovani generazioni, imponendosi con un look fortemente negativo e militarizzato, un costume impoverito di analisi e contenuti, uno stile intessuto di degradazione reazionaria agiografica, ambiguità nostalgica, un fenomeno sostanzialmente “incapacitante”.
Questo magma malato, etero-diretto come al solito dalle centrali della comunicazione, è stato da subito opportunamente ingabbiato nello schema degli immaginari preferiti del sistema, e quindi un nano skinhead, messo sotto una lente di ingrandimento, è diventato per incanto un titano, un gigante; così si è potuto far credere al mondo (e si continua a far credere ancora oggi ad ogni occasione) come rinasce dalle ceneri della storia e dalle contraddizioni sociali il pericolo nazista, razzista, la xenofobia stragista, e come la caccia all’immigrato prelude alla prossima riapertura dei campi di concentramento, che potrebbero trasformarsi nel nuovo olocausto da sempre annunciato.
Ora se per tutti gli anni 70-80 la destra radicale era riuscita perfino nell’intento di superare la sinistra “a sinistra”, ed aveva anticipato lucidamente le tematiche sulla crisi epocale del “pensiero unico”, ad analizzare compiutamente la globalizzazione dell’economia, a denunciare il mondialismo neoliberista ed i suoi organismi direttivi, ad accreditarsi come anticipatore dei temi della post-modernità emergente, a considerare l’ecologia come ricerca di una diversa qualità della vita, ad appoggiare l’autodeterminazione dei popoli come scelta di radicamento, ad esaltare la rinascenza neo-pagana come affermazione della cultura identitaria , ebbene tutto questo, con l’avvento della teatrino naziskin viene seppellito definitivamente e si ritorna ad un vecchio schema tanto caro al neo-fascismo classico di individuare nell’altro “lontano da sé” il nemico principale, mentre nella realtà il nemico principale è sempre per cominciare in “noi stessi” ( alla faccia quindi di una della più importanti lezioni evoliane!!). La forma mentis meta-politica della destra radicale è rimasta schiacciata dall’irruzione di questa forza elementare con addentellati pre-politici (lo stadio, la musica, la strada) rimanendone fagocitata; e soprattutto la destra radicale è rimasta nell’impossibilità oggettiva di gestire sul piano della comunicazione e del linguaggio gli opportuni distinguo.
L’entrismo, il trasformismo, il riformismo neo-conservatore e post-ideologico
Accanto a questo scenario imbastardito nasce la convergenza inaspettata con un’altra deriva intrigante e perfettamente speculare a quella appena presentata, e riguarda l’inversione trasformista che dal ’92/94 ha suggestionato intere classi dirigenti ex-destro-radicali e/o neo-destre verso un ritorno alla grande “destra” nelle sue due tendenze: 1) la conservatrice e 2) la nazional-populista (anche perché le due tendenze convivono ed interagiscono, vedremo come, soprattutto in tempi di delirio elettorale). Facciamo il punto sulla prima.
Il nuovo scenario istituzionale di destra è stato fortemente indirizzato a convertire verso la liquefazione post-ideologica tutte le istanze emergenti, liquefazione che a sua volta non solo non riconosce più “il nemico principale” ( tanto meno come nemico principale l’Occidente, che viene difeso ormai a spada tratta come il migliore dei mondi possibili — alla faccia anche dell’analisi ultradecennale di A. de Benoist); ma tale liquefazione post-ideologica semplicemente afferma che non c’è più nessun nemico; al limite esiste l’avversario (tranne ovviamente l’eternità indiscussa dell’atavico nemico comunista, anche se un oggettivo pericolo non esiste in Italia ormai dal lontano 1960!); tale deviazione propende ormai verso una “via conservatrice/riformista alla globalizzazione” (la chiamano “sfida alla globalizzazione”), e si alimenta alla sua destra delle paure xenofobe dei bacini di utenza elettorale nazional-populisti utilizzati però solo come contenitore per il semplice recupero di voti e di consenso elettorale.
Difendere sempre l’economia di mercato del lavoro sottopagato, ma salvaguardarci dai rumeni e dall’islam terrorista della manodopera importata sottocosto, dalle mignotte negre e dai trans con le quali magari si flirta il sabato sera per noia; bloccare comunque l’inflazione et voilà, il migliore dei mondi possibili è ancora a portata di mano. Inversione di prospettiva a 180° gradi sui temi di politica internazionale, sulla questione medio-orientale (che non è più essenziale), azzeramento di interesse sui temi chiave quali la sovranità nazionale, militare, monetaria.
Attenzione perché in questa entropia appena disegnata, galleggiano personaggi del calibro di Malgieri, Veneziani, Campi (in ambito meta-politico neo-destro), nonché interi pezzi (… da 90) delle ex-classi dirigenti di Terza Posizione, dell’ex-Fronte della Gioventù e del tardo movimentismo destro-radicale degli anni Ottanta, tutti sapientemente riconvertiti ed allineati al cosiddetto riformismo neo-conservatore.
Deputati e deputatesse, senatori e senatrici, consiglieri regionali, provinciali, comunali, portaborse eccellenti, giornalisti di grido, neo-imprenditori finanziati, membri di istituti di formazione e fondazioni miliardarie (come ad es. la fondazione Fare Futuro).
Il punto centrale della svolta avviene ovviamente dal ’94 in poi con l’aborto di Fiuggi ma si accresce via via grazie al messianismo mediatico berlusconiano (… la parolina magica della Casa delle libertà oggi riadattata a “Popolo delle Libertà”); la svolta antropologica la si evince soprattutto dall’imbarazzo di molti ex-camerati ad esprimere la pur minima critica sui temi sociali e politici avanzati (il precariato, le private equity ed i fondi di investimento che azzerano le economie nazionali, la privatizzazione dei settori strategici, lo smantellamento dello stato sociale, l’azzeramento progressivo di interesse sulle tematiche di chiave della politica internazionale, l’appoggio indiscusso ed acritico a tutte le guerre americane in difesa della occidentale democratica supremazia).
Questo blocco “conformista e trasformista” si è quindi saldato perfettamente con il becero-estremismo pre-politico di strada sui temi quali la perennità e la santità del verbo anticomunista ed il pericolo dell’ immigrazione (non come effetto, ma come causa scatenante delle crisi dell’occidente — povero Spengler!!); questa mutazione antropologica vive e si alimenta grazie alle fortune televisive della sub-cultura Mediaset, grazie al palcoscenico della tv spazzatura, ed infine grazie soprattutto agli stipendi di interi apparati di partito che ormai vivono agiatamente di politica, e che grazie alla politica “strapagata come lavoro produttivo” fanno invidia perfino alla vecchia nomenclatura dc ed al vecchio partito socialista.
Non solo.
Il miraggio dell’eldorado della politica “liquida” e post-ideologica (il solido ideologico che entra nel liquido post-ideologico) invoglia sempre di più nella corsa all’oro anche coloro che pur mantenendo posizioni quantomeno “radicali” e/o critiche cercano improbabili soluzioni “a breve termine” per la propria logica sopravvivenza comunitaria. In realtà non si è capito che tale liquido post-ideologico è un acido corrosivo che cancella qualsiasi organismo solido-ideologico vi si accosti, e lo dissolve dentro i contenitori post-ideologici “prima che arrivi a dama …”. L’acido post-ideologico finisce per liquefare e corrodere coloro che vogliono dominare lo strumento post-ideologico.
In fin dei conti, questo scenario esce riaffermato anche dall’ultima tornata elettorale (lo si è percepito anche dal livello di follia e di delirio intercettato sui forum per mesi), da dove si evince che tutte “le destre” (più o meno istituzionali, trasformiste, anticomuniste, tardo-neo-fasciste) hanno vinto la loro battaglia, con la magica impresa di cancellare le sinistre radicali dal parlamento nazionale (la classica vittoria di Pirro); peccato che in questo scontro incauto con la sinistra siano rimaste inibite e frustrate anche le poche spontanee espressioni su cui la destra radicale puntava per la propria sopravvivenza e rappresentanza politica.
In realtà chi ha sfondato è proprio il post-ideologismo ed il pragmatismo neo-calvinista del nord, una delle tante “destre” che coniuga le sacrosante rivendicazioni post-moderne del federalismo fiscale e del recupero del territorio con le problematiche legate alla sicurezza, e anela nel suo incedere verso Roma per la fine della politica politicante, la fine dello stipendio garantito per tutto e tutti ed assistito dalle economie produttive del Nord (in perfetta contraddizione quindi con lo scenario che ben conosciamo a Roma).
Comunque, se questo risultato era il destino glorioso della influenza meta-politica “destro-radicale” (qualcuno già ne sta esaltando incautamente i ludi di vittoria) stiamo alla frutta; in realtà è proprio la “destra radicale”, dopo l’ultima tornata elettorale, ad essere la vera orfana di questo tempo, priva di spazi alternativi, assente dalla sfida post-moderna in atto (salvo alcune formazioni minoritarie); è proprio la destra radicale che, nelle sue mille variabili indefinite, è ancora alla ricerca di un proprio sbocco autentico ed originale, di un proprio ruolo non appiattito sui due blocchi (quello estremista pre-politico e quello trasformista neo-conservatore).
La terza sponda della crisi: la deriva nazional-populista e l’abiura della metapolitica
L’ultima sponda che ha devastato la destra radicale è quella nazional-populista; perfettamente in linea con lo scenario di crisi appena prospettato dalle altre due tendenze: pre-politica ed estremistica la prima; di entrismo e trasformismo-post-ideologico la seconda.
Il Nazional-Populismo è figlio di un termine ambiguo partorito dalla leadership rautiana negli anni Ottanta (il termine “nazional-popolare”), che nell’intento originario doveva essere concepito come la totale e naturale influenza della destra radicale e del suo impianto metapolitico nella crescita e nella “rigenerazione” di classi dirigenti che avessero la predisposizione e la tentazione ad essere vere avanguardie rivoluzionarie di popolo. Questo termine viene poi successivamente confuso per anni con gli scenari francesi del Fronte Nazionale di Le Pen, con Haider in Austria o col BNP Inglese, ed ha finito per generare in Italia una miriade di micro-formazioni alla ricerca di una collocazione elettorale distinta ed alternativa alle destre ufficiali (An – Fi – Lega). Dal 1995 in poi, attraverso una serie infinita di scissioni dovute più alle smanie di protagonismo e ducismo dei loro animatori piuttosto che a differenti contenuti e programmi (Fiamma Tricolore, Forza Nuova, Alternativa Sociale, Fronte Nazionale e Sociale), in molti hanno cercato di intercettare il consenso elettorale sui temi della crisi, sapendo bene che esiste un bacino elettorale distinto dalla destra istituzionale classica.
Purtroppo la “mal-destra” concorrenza dei leader politici di riferimento, che hanno vissuto e vivono tutt’oggi di rimessa “sugli avanzi del pranzo e della cena” lasciati dal duce Berlusconi, non ha permesso la crescita di uno spazio concretamente autonomo, identificato, radicato, alternativo. Esiste il paradosso che vede sempre la stessa scena: tutti i gruppi più o meno minoritari nazional-populisti, pur utilizzando il medesimo linguaggio minimalista, pur utilizzando gli stessi immaginari, ed avendo pressoché simile il posizionamento politico, invece di creare un unico cartello strategico, entrano in pesante conflitto pre-elettorale per le briciole (conflitto sapientemente etero-diretto dall’ unico grande regista duce-Berlusconi), ed avendo in sé tutti indistintamente il gene regressivo della “vetero-missinità” ducista rinunciano ad una costruzione unitaria condivisa, ad un lavoro per staff, quindi orizzontale, ed alla logica crescita di classi dirigenti sui cosiddetti tempi lunghi. Tutti questi soggetti puntano per definizione all’uovo oggi anziché alla gallina domani. Anche questa terza sponda che interagisce pesantemente con il perimetro meta-politico della destra radicale risulta fortemente “guastata” nel linguaggio ed inadeguata negli immaginari proposti, i quali da un lato non risultano abbastanza forti per arginare le spinte estremistiche pre-politiche sulle quali dovrebbero dominare incontrastati (lo stadio, la musica, la strada) e dall’altro sono percepite invece con tinte troppo fosche ed indesiderate per la società civile da conquistare.
Anche il “nazional-populismo” è supinamente appiattito sulla brutta copia della destra anti-comunista istituzionale, anche il nazional-populismo è seriamente limitato nelle tematiche di difesa ad oltranza del cittadino dall’immigrato invasore islamico e dallo stupratore rumeno, anche il nazional-populismo è tornato ad essere a seconda della prevalenza e del periodo (soprattutto negli immaginari endogeni) neo-fascista, anti-comunista, interventista, squadrista, dannunziano ecc.ecc.ecc. senza tuttavia esserlo nelle scelte finali di natura culturale e politica (anche perché fascisti, interventisti, squadristi e dannunziani, votati tutti al concetto della mobilitazione totale, erano, antropologicamente parlando, tutto tranne che “di destra”).
In realtà non ci si pone la domanda di come venga percepito esternamente tale immaginario e/o se perlomeno risulta essere “differenziato” rispetto all’estremismo pre-politico e/o al neo-conservatorismo post-ideologico.
È soprattutto nella fascia giovanile nazional-populista che “la contro-rivoluzione” sul linguaggio, gli immaginari ed il collocamento politico ha colpito più duramente, e che la destra radicale sta perdendo la sua battaglia di influenza culturale, a tal punto che c’è una sottile polemica strisciante, una sorta di disconoscimento verso tutte le pregresse esperienze, verso tutti i fratelli maggiori destro-radicali, verso tutte le espressioni precedenti e/o collaterali, in nome di un nuovo purismo assoluto, intransigente, pragmatico.
La parola d’ordine è: lasciateci lavorare in pace dove voi avete fallito.
In questa fascia hanno preso piede tutti una serie di “integralismi” possibili ed immaginabili (da quello cattolico a quello neo-squadrista, a quello neo-futurista, ha ripreso spazio un anti-comunismo militante spicciolo di strada, la visione dell’occidente come ultimo “baluardo di purezza razziale assoluta” (ah ah ah!!!), ed il linguaggio si è pesantemente involuto, contratto; le parole d’ordine si sono ridotte a slogan di “micheliniana” memoria che erano già fuori moda nel 1968, e tutti sognano il protagonismo rinnovatore della grande destra anti-comunista ed anti-immigrazione che ci liberi dal peccato originale (amen).
Così mentre “l’occidente tramonta seriamente” ogni giorno di più, sulle perfette intuizioni spengleriane dei primi del ’900 (accettata addirittura ormai da sinistra), i naturali interpreti del pensiero della crisi (la destra radicale) sono alla continua ricerca di improbabili ed impossibili soluzioni di ritorni all’età dell’oro, magari con l’illusione che la perfetta alchimia tra l’estremismo pre-politico, il trasformismo post-ideologico e le derive nazional-populiste generino l’avvento di una nuova meravigliosa “ Thule Iperborea”.
In pochi si rendono invece conto di “ … come sia difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.
Anche perché se non si accetta seriamente il tema della sfida post-moderna in tutta la sua complessità e con tutte le sue conseguenze, significa aver definitivamente perso non una battaglia ma l’intera guerra.

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