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L'ex captivitate salus di Mario Tuti - 1

Non ho mai creduto nella lettera costituzionale sul carcere come rieducazione ma sicuramente nei fatti chi dal carcere ne esce trasformato. Un esempio è Mario Tuti, che dal carcere, dopo 35 anni, non è ancora fuori ma offre una straordinaria testimonianza. Pubblico qui, diviso in tre parti, una sua testimonianza, ricca e intensa, offerta durante il convegno di un'associazione napoletana di volontariato in ambito carcerario, di forte ispirazione cattolica, Uomo nuovo. 
Accompagno questa testimonianza con la riproduzione dell'intervista concessami in occasione della messa in scena dell'Ecclesiaste, "Secondo Qoelet" da parte di una compagnia di detenuti. Testo elaborato da Luciano Violante e allestimento curato dallo stesso Tuti (Roma, 4 luglio 2004). L'intervista è tratta dal mio Dvd "I colori del nero", per cui ho anche usato immagini della messinscena come stacco tra le diverse interviste



EX CAPTIVITATE SALUS  -  CARCERE E VITA
[L'intervento di Mario Tuti al Seminario di Studio "LE ALTERNATIVE AL CARCERE ... LA VIA DELLO SPIRITO" il 10 luglio 2010 a Scampia]
L’uomo è perituro.
Può darsi: ma periamo resistendo.
E se il nulla ci è riservato.
Facciamo in modo che sia un’ingiustizia.
(E. P. de Sénancour) 
Ho conosciuto i frangenti del destino,
sconfitte e ferite,
accuse, colpe, fame e freddo,
prigionia e cella d’isolamento.
Pure, una debole forza ci resta.
Nel rispondere all’invito dell’amico Nicola e del Movimento Unito Uomo Nuovo di partecipare al seminario su “Le alternative al carcere – La via dello spirito – Redenzione e riscostruzione”, ho pensato al mio intervento come interrogazione personale sulle tematiche carcerarie e la condizione penitenziaria - a parole nei pensieri di tutte le forze politiche e sociali, nella realtà troppo spesso consegnate ad un limbo senza nome, senza fondi, senza prospettive.
E una riflessione su come questo sistema andrebbe aiutato e migliorato per il raggiungimento dei suoi scopi: non più momento distruttivo della persona e perpetuatore dell’errore, ma percorso di speranza, solidarietà, redenzione e risocializzazione.
Non tanto allora una discesa agli inferi del carcere e della pena quanto una ricerca e una prova di quegli spazi d'impegno e di libertà che ancora si danno!
E racconterò allora episodi del mio percorso carcerario, del mio percorso di vita - mi sembra di una vita fa, e forse lo è - una sorta di “sapienza della cella”, rivisitando zone di luce e d’ombra del mio passato in compagnia di vividi ricordi e sgomento di oblii, in un certo senso provando a mandare un messaggio non solo ai partecipanti al seminario, agli amici detenuti, agli “addetti ai lavori” ed alla stessa società, ma anche a me stesso.
Attimi, giorni, anni da trasformare in parole, e indubbiamente di parole ce ne sono alcune che mi accompagnano da anni, mi tormentano, mi consolano, mi appassionano… Responsabilità, rimpianto, riconciliazione, ricostruzione
Ma la parola accade se esiste uno spazio di ascolto, un silenzio che ne permette l’accoglienza. A volte arriva come un visitatore inaspettato che bussa alla porta di un io che non sa, semplicemente si arrende al mistero del Logos, e solo allora la parola si dà nella sua purezza, nella sua autenticità. C’è una rivelazione di sé a se stessi ed agli altri, cui chiedere un impegno e un perdono.
Una richiesta a volte difficile, ma non bisogna dimenticare l’esortazione evangelica “Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto” (Matteo: 7, 7; Luca: 11, 9).
Se abbandonassimo le corazze che ci siamo costruiti e che ci imprigionano, se i nostri egoismi ed orgogli cadessero al suolo andando in mille pezzi, ritroveremmo la via del cuore, la via del Signore, con la Sua promessa di vita e di libertà.
E ora da semilibero, e anche se non credente,  provo gratitudine per quelle Sue parole che irradiano la luce ed il calore dell’amore che si fa speranza, e insieme provo gratitudine per i tanti incontrati nel carcere, compagni dei tempi peggiori, e che pure mi hanno dato amicizia, solidarietà, sapienza, conforto - sperando che anche per loro le porte si siano aperte…
Il carcere allora come opportunità di salvezza. Quella salvezza che a tanti è ancora negata…
Era l’estate del 1993, mi trovavo nel supercarcere di Voghera, e mi venne a trovare un volontario, Giuliano Capecchi, che a Pistoia aveva fondato una cooperativa che si occupava dell’inserimento lavorativo dei detenuti e pubblicava anche un bollettino, “Liberarsi – dalla necessità del carcere” al quale ogni tanto collaboravo con qualche intervento.
Quello per me era un periodo abbastanza critico, era appena morta mia madre, l’unico familiare che aveva continuato a seguirmi, e in più il Ministero, perché non mi mancasse nulla del “cursus honorum” carcerario, aveva pensato bene di applicarmi anche le restrizioni dell’art. 41 bis, quello del decreto antimafia.
Mi sembrò quindi una boutade quando Giuliano, in quella sorta di cabine telefoniche blindate in cui si svolgevano i colloqui, iniziò col dirmi: “In fondo Mario sei anche fortunato, se non avessi avuto l’esperienza del carcere saresti il solito empolese: ricco, stronzo e contento!”. E continuò facendomi riflettere su come fosse stata proprio l’esperienza del dolore e dello stesso male – inferto, ed in parte subito – a rendermi più sensibile verso la sofferenza degli altri.
Non che se avessi continuato a fare l’architetto – certo ricco, e probabilmente anche stronzo e contento – non mi sarei dedicato a qualche opera di beneficienza, come in effetti già avevo fatto, ma essenzialmente come “dovere sociale”, senza alcuna vera “sympàtheia”, quel sentire insieme, nella propria carne e nella propria anima, le sofferenze degli altri uomini, di vivere e comprendere come proprie le loro storie e vicende.
Mentre ora, quando sto con i ragazzi della Comunità, con le loro ansie e le loro speranze, i loro timori e le loro aspettative, le loro crisi ed i loro abbandoni, se un aiuto riesco forse a dare non è tanto con le nozioni di informatica o di agronomia ma ponendomi come corpo tra gli altri corpi di questi poveri Cristi - dell’essere evidentemente con loro come membra, sangue e carne, e respiro e sguardo. E la consapevolezza di essere tutti insieme membri di quel corpo mistico di Cristo – Colui che pur Dio si volle uomo, uomo carcerato, sofferente, affamato ( Matteo: 25,36 ) … Una consapevolezza che risveglia quella solidarietà nella pena e nel dolore che anche in carcere, anche con i drogati, i sofferenti, i perduti resta pur quando tutto il resto è ormai perduto, e che può ancora tutto salvare! 
E un aspetto forse di quel “Mysterium iniquitatis”, in cui anche il male e il peccato possono essere compresi e rovesciati come passi verso la redenzione.
Purtroppo oggi il carcere, come lo stesso concetto di giustizia, si è completamente laicizzato. Ed emblematico è il fatto che quello che un tempo si chiamava Ministero di Grazia e Giustizia ha voluto togliere, cancellando la Grazia, ogni riferimento che trascendesse la miseria umana e la misera contabilità dei codici e delle leggi. Forse una confessione d’impotenza, per un Ministero e una Giustizia e giudici capaci solo di proclamare emergenze, cui rispondere prevedendo la costruzione di nuovi carceri, ed utilizzando proprio quei fondi della Cassa delle Ammende che per legge dovrebbero essere destinati a percorsi di reinserimento per i detenuti.
Confermando così che la Giustizia, lasciata a se stessa, senza la Grazia, rischia tragicamente di trasformarsi nel suo esatto contrario… “Summum Ius, summa iniuria”, dicevano gli antichi.
Da cui può forse riscattarla solo la penultima delle beatitudini evangeliche: “Beati i perseguitati per causa della giustizia” (Matteo: 4,10)… Beati perché a loro apparterrà il Regno dei Cieli, e beati forse anche qui sulla terra, perché la pena - più è assurda e più è inutile - aiuta a sopportare una condanna e un carcere dove nessun spazio è più concesso all’impegno e alla coscienza, dove la pena e il disagio sono medicalizzati e trattati a flaconi di Valium e Metadone, dove anche l’amore e gli affetti sono stati regolamentati e assoggettati alle autorità…
E d’altronde già sessant’anni fa, Carl Schmitt, uno dei più controversi ma anche tra i più importanti giuristi dello scorso secolo,“nelle desolate vastità di un’angusta cella”, in una dura resa dei conti col suo passato e la sua epoca, denunciava i pericoli di una Giustizia a cui la modernità aveva precluso di alzare lo sguardo verso Dio, osservando come 
“la scienza giuridica (…) è profondamente coinvolta nell’avventura del razionalismo occidentale. In quanto spirito, discende da nobili genitori. Il padre è il rinato diritto romano, la madre la Chiesa di Roma. La separazione dalla madre si compì finalmente, dopo parecchi secoli di ardui conflitti, all’epoca delle guerre civili di religione. La figlia scelse di stare con il padre, il diritto romano, e abbandonò la dimora materna. Cercò una nuova casa e la trovò nello Stato. La nuova dimora era principesca, un palazzo rinascimentale o barocco. Grande fu il senso d’orgoglio dei giuristi e dei governanti, e parimenti il loro senso di superiorità sui teologi e i religiosi”.
Ma in una società e in una giustizia che hanno programmaticamente messo in un canto Dio e la Sua Grazia non resta nulla a colmare il vuoto. (1 - continua)

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